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A Bitter Draught

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“I’m tired, boss. Tired of bein’ on the road, lonely as a sparrow in the rain. Tired of not ever having me a buddy to be with, or tell me where we’s coming from or going to, or why. Mostly I’m tired of people being ugly to each other. I’m tired of all the pain I feel and hear in the world everyday. There’s too much of it. It’s like pieces of glass in my head all the time. Can you understand?”

(John Coffey in the Green Mile)

Ci sono momenti in cui una grande stanchezza mi assale, o forse si tratta di una profonda, ingiustificata solitudine, e passerei intere giornate ad ascoltare la pioggia e i tuoni dilaniare il cielo di Roma, lasciandomi andare al più decadente romaticismo mentre osservo panni incautamente stesi veleggiare, se non volteggiare impazziti al soffio di venti violenti. Chissà se le cicale riprenderanno a cantare dopo la bufera, o se saranno annegate… magari hanno costruito una piccola arca con pigne e pinoli e si sono rifugiate nelle Canarie, dove potranno interpretare tutte le hit di Ricky Martin.

Qualche giorno fa, ebbi la sfortuna di capitare, non so come, nel bel mezzo di una conversazione sulle prostitute. Erano state definite creature immorali, da “ripulire”.

Nei primi giorni di marzo scorso, dopo aver percorso le splendide montagne del parco di Seoraksan, vicino a Sokcho, a pochi chilometri dalla frontiera con la Corea del Nord (fu una bella avventura, perché mi perdetti anche lì, cercando il tempio di Naksansa, e mi ritrovai a camminare in spiagge desolate, tra filo spinato e camion di soldati armati di mitra – era proprio nel periodo in cui il dittatore nordcoreano aveva minacciato con i suoi missili di cartapesta gli Stati Uniti e la Corea del Sud- ma è un’altra storia, un’altra storia), decisi di dirigermi a Sud verso Gyeongju in pullmann, fermandomi una notte nella grande città universitaria di Daegu, la cui pronuncia, in coreano [Degu], mi ricordava il verbo francese dégoût, disgusto. Strana associazione di idee che si rivelò profetica.

Arrivai di notte, distrutta da un viaggio lunghissimo, stanca di non trovare nessuno con cui parlare e dovermi sforzare di capire il coreano. Bene o male trovai l’ostello nel quale avevo prenotato un letto, ma mi risposero che c’era stato un errore, che tutto era pieno. Sentii l’irritazione invadermi. Volevo tornare alla stazione degli autobus e ripartire direttamente per Gyeongju, ma i manager mi convinsero a fermarmi nel secondo ostello. Pagarono loro il tassì.

Fui accolta calorosamente da un robusto ed atletico Canadese dell’Ontario, che scommetteva con il suo amico sulla nazionalità dei nuovi arrivati. Aveva detto che ero francese (non proprio, ma vabbè). Insegnava l’inglese in un istituto di ingegneria. Era così felice di poter parlare francese con me che volle invitarmi a cena e mostrarmi il “true korean lifestyle”. Mi fece assaggiare un sorso di soju, tradizionale grappa coreana dall’alto tasso alcolico. Lo chiamano l’acqua di Seoul. Lui ne aveva già bevuta una bottiglia. Il proverbio locale dice che una bottiglia di soju fa ridere, la seconda fa piangere e la terza di fa morire.

Andammo in un ristorante dove preparammo un ottimo bulgogi, delizioso barbecue coreano, discutendo allegramente di tutto e niente. Intanto Jason continuava a versare birra nel mio bicchiere, poi senza che me ne accorgessi, birra e soju (coktail deleterio). Sazi e già ubriachi, mi portò in un bar, poi un altro e un altro ancora, offrendomi choju (birra e soju) e shot di tequila. Diceva che i veri Coreani passavano il sabato sera saltando di bar in bar, almeno quattro, fino a cadere stramazzati a terra. Bevetti per annegare quel nauseante senso di infinita solitudine, mentre Jason, con voce pastosa, si lanciava in strani discorsi sulle mie gambe ed il fatto di poter parlare francese con qualcuno, dopo così tanto tempo. “Non m’importa se sei zoppa, parliamo francese, francese!”. Il mondo girava, i volti si deformavano, le parole non avevano più senso, tutto era vertigine e vagavo in precario equilibrio. Mi trovai con lui in una camera, la chiave girò nella serratura.

Sentii Jason afferrarmi e stringermi a sé, poi umido bacio all’alcol e mani brucianti. Ma certi ricordi sono difficili da cancellare, malgrado la confusione nella testa, e così lo respinsi, in preda al panico. Non si arrese, aveva totalmente perso il controllo. Finimmo con il litigare ferocemente fino prenderci a bottigliate, poi riuscii a colpirlo nelle parti intime ; non so come, mentre rantolava, trovai la chiave e percorsi titubante un corridoio che non ricordavo… lo sentivo gridare, cercarmi, e così mi misi a correre, nonostante i vuoti di coscienza. All’improvviso, il suolo si ritrasse dai miei piedi e rotolai giù per le scale : dolore lancinante alle costole e al braccio sinistro. Avevo le mani insanguinate per via di schegge di vetro che mi avevano intagliato i palmi.

Non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi. Presi una stradina laterale e mi rifugiai sotto ad un portico. Crollai a terra, scossa da un pianto che non riuscivo a fermare. Poi una mano sulla spalla e braccia che mi avvolsero benevole : una donna mi stava stringendo a sé, sussurrando parole sconosciute e accarezzandomi per calmarmi, mentre ripetevo disperata “Don’t leave me alone with him, don’t leave me alone with him”  (sorprendente : anche se ero ubriaca persa, riuscivo comunque a parlare inglese!). Non capiva l’inglese e io non capivo il coreano. Mi portò nella sua stanza, medicò le mie mani, applicò del ghiaccio sui miei lividi, e mi diede una maglietta pulita, perché la mia era strappata. Passai tutta la notte abbracciata a lei, come nel grembo di una madre. Era una prostituta.

La mattina seguente, presi il primo pullmann per Gyeongju, indolenzita, amareggiata e piena di vergogna. La testa mi girava, mille martellate al secondo risuonavano all’interno del cranio. Le mie mani erano fasciate, avevo una nuova maglietta addosso e un bigliettino in tasca : con grafia incerta, quasi infantile, qualcuno avevo scritto you not alone.

Sono ben altre, le realtà da ripulire.